BEGIN TYPING YOUR SEARCH ABOVE AND PRESS RETURN TO SEARCH. PRESS ESC TO CANCEL

PM10 e COVID19, ALLA RICERCA DEL CAPRO ESPIATORIO

Certo che i media sono incredibili: hanno la capacità in un attimo, nel bene o nel male di diffondere “verità” indiscutibili, ma spesso con metodiche opache. Prendi ad esempio l’ultima questione posta all’attenzione dell’opinione pubblica: la presunta correlazione tra infezione COVID19, il particolato atmosferico PM10 e gli allevamenti in pianura Padana. E’ stato facile creare un nesso di causa effetto, dove l’allevamento è il “capro espiatorio”, cioè la clamorosa causa della pandemia in Italia. E’ facile altrettanto fare ipotesi altisonanti, ammantate da una qualche firma autorevole di professori universitari e qualche medico e il gioco è fatto. Il colpevole è servito sul programma di grande tiratura come Report di ieri sera (13/04/20), che si appoggia come fonte scientifica su un recente studio pubblicato da  Società Italiana medicina per l’ambiente. Prima di fare considerazioni sull’opportunità o meno di queste ipotesi, è senza dubbio giusto provare a verificare la fondatezza dello studio e della tesi. Se fosse vero, di fronte ad una pandemia tale, non sarebbe giustificato alcun tentennamento. Ma se fosse tutta una montatura, risulterebbe anche criminale.

E allora, applicando il buon metodo scientifico proviamo ad approfondire.

AREA IN QUESTIONE: zona compresa grossomodo tra Mantova, Brescia, Cremona e Milano.

RELAZIONE DA VERIFICARE: amplificazione del contagio da Coronavirus causato dalla presenza massiva di particolato PM10 in atmosfera.

Prima verifica e alcune considerazioni: un esame molto superficiale evidenzia che il COVID 19 si è sviluppato in un’area tra Cremona e Milano, per poi diffondersi massivamente verso la provincia di Brescia e Bergamo, area tutta caratterizzata da una alta concentrazione di allevamenti bovini e suini. Tuttavia è facile dimostrare, se non presi da preconcetti, che nella medesima area sussiste un’alta concentrazione di abitanti, di fabbriche ed attività industriali e di traffico su gomma (es. autostrada A4 edel Brennero). Ma poi c’è sempre da considerare il fattore casuale…

 

concentrazione ammoniaca in atmosfera

Correlazione tra diffusione di COVID19 a Brescia e presenza PM10: lo studio effettuato dalla Società Italiana medicina per l’ambiente e ancor più in maniera netta la trasmissione di Report denunciano una correlazioni tra l’alta concentrazione di PM10 in atmosfera e le infezioni da COVID19. Lo studio in questione dice “Si evidenzia come la specificità della velocità di incremento dei casi di contagio che ha interessato in particolare alcune zone del Nord Italia potrebbe essere legata alle condizioni di inquinamento da particolato atmosferico che ha esercitato un’azione di carrier e di boost.”

Premessa: l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica per il COVID un periodo d’incubazione che va da 2 a 14 giorni. Per la ricerca effettuata ho utilizzato un periodo di latenza pari a 10 gg. I dati delle nuove infezioni giornaliere sono stati pubblicati dal Giornale di Brescia, mentre per i dati delle concentrazioni di PM10 di Brescia ho utilizzato i dati pubblicati da  ARPA per la stazione Broletto di Brescia. Il presente studio quindi è valido solo per Brescia, città duramente colpita dal COVID19. Tuttavia analoghi andamenti si sono misurati in provincia di Brescia, Bergamo e Cremona. Nel grafico si può vedere l’andamento a Brescia dei PM10 in azzurro e delle nuove infezioni in arancione. i Tratti in verde cerchiati indicano un primo periodo di assenza evidente di correlazione tra i due fenomeni, così come per il secondo periodo cerchiato e con tratto rosso.

Il risultato non lascia spazio a discussioni: i casi di COVID sono aumentati nel periodo corrispondente al 6 fino al 15 marzo. Tuttavia tale periodo ha visto, 10 giorni prima particolarmente basse concentrazioni di PM10 (inferiori a 25-30 ppm). Allo stesso modo, a fronte di un’impennata dei PM10 in atmosfera attorno al 28 marzo, dieci giorni dopo i casi di nuove infezioni da COVID19 sono arrivati a quantitativi minimi.

Pertanto la correlazione tra PM10 in atmosfera e nuove infezioni non è assolutamente dimostrata.

AMMONIACA E PM10 IN ATMOSFERA

Posto che non è dimostrata la correlazione tra PM10 e nuove infezioni, in ogni caso è giusto verificare l’esistenza di una qualche correlazione tra il particolato e l’ammoniaca rilevabile nell’aria Padana e se ci sia un nesso con la produzione di reflui da allevamento.

In questo caso mi avvalgo di due studi recenti. Il primo, condotto da  ARPA Emilia, indica che una parte del PM10 atmosferico deriva dall’ammoniaca e che questa deriva per circa l’85% dalle attività di allevamento. Il grafico mostra una stima dell’origine dell’inquinamento da PM10 in una tipica situazione del bacino padano (Emilia-Romagna) e ci fornisce gli ordini di grandezza dei diversi contributi.

fonte: “La qualità dell’aria in Emilia-Romagna. Edizione 2018

Come si vede dal grafico, c’è una prima distinzione da fare tra particolato primario e secondario. Una parte particolato viene emesso direttamente in atmosfera come tale (particolato primario), ma questa non è la parte preponderante: la maggior parte di particolato si crea a seguito dell’emissione di altri inquinanti, detti precursori, che una volta in atmosfera si trasformano chimicamente dando origine al particolato secondario. Il settore agricolo con gli allevamenti intensivi e concimazioni emettono poco particolato primario, ma in compenso sono la principale fonte di ammoniaca (il 97% del totale nel bacino padano – Fonte LIFE Prepair, Dataset delle emissioni del Bacino Padano), incidendo quindi per un 19% sul totale dei PM10.

E’ un dato rilevante, ma si badi bene non inevitabile. Con i risultati del progetto GESEFFE si è dimostrato che quasi tutte le emissioni di ammoniaca possono essere evitate con due accorgimenti: interramento immediato del refluo dopo lo spandimento e copertura delle vasche di stoccaggio dei liquami.  Il sistema di spandimento e immediato interramento riesce ad abbattere l’esalazione di ammoniaca per almeno il 60%, che sommato alle minori esalazioni dalle vasche coperte permette di arrivare al risultato di una riduzione fino al 70-80% dell’ammoniaca.

interramento istantaneo dei liquami

Queste tecniche vanno diffuse presso gli allevatori, ma è evidente che per fare ciò , serve cambiare la loro mentalità, oltre che siano realizzati grossi investimenti, i quali, tuttavia gli attuali prezzi riconosciuti al produttore di latte, non sono facilmente realizzabili. Infatti il costo di produzione del latte è quasi sempre inferiore al prezzo pagato all’allevatore.

In fine colpiscono alcune affermazioni piuttosto fuorvianti sentite nel programma di Report. Si racconta dei bei tempi andati, quando gli allevamenti producevano l’ottimo letame e non il dannoso liquame di oggi. E’ a tutti gli effetti una castroneria: a quei tempi (50 anni fa?) gli allevamenti da latte producevano letame, per il semplice fatto che le vacche erano allevate in piccole stalle, buie, a lettiera permanente e con gli animali legati alla catena. Le bovine a quei tempi bevevano due volte al giorno a mangiavano quel poco che gli somministrava l’allevatore. E’ questo il modello che si vuole esaltare? Una valutazione complessiva equilibrata dovrebbe riconoscere all’allevatore un continuo miglioramento del benessere animale nel corso dei decenni fino ad oggi. Si, perché ora le vacche circolano libere negli allevamenti, mangiano e bevono quanto e quando vogliono e, in alcuni casi, vanno perfino a farsi mungere quando vogliono. Il liquame prodotto da questi allevamenti è tale e non letame, per il solo fatto che è più diluito con acqua. I quantitativi di deiezioni nette prodotte da ogni singolo capo sono su per giù stesse di una volta. Inoltre la fertilità dei suoli padani dopo decenni di utilizzo dei liquame con tutta evidenza non sta diminuendo, ma, basta leggere le statistiche delle produzioni delle principali coltivazioni legate agli allevamenti come mais, frumento, erba medica, ecc, sta mediamente aumentando.

rese mais in Italia dal 1960

Lo sparare a zero contro gli allevatori non fa altro che esporci ad acquisti e conseguenti pericolose dipendenze dall’estero, con buona pace del mantenimento della cultura agroalimentare italiana. In  tutto questo c’è un’evidente stoltezza di fondo e scarsa visione prospettica. A meno che l’intento sia che tutti diventino vegani, ma quella è un’altra assurdità ancora più grave…

Fausto Cavalli

 

dott. Agronomo, Agrometeorologo, studioso di clima, meteorologia ed economia.