La teoria economica neoliberista, si pone come scopo l’esaltazione del libero mercato, ma, più propriamente in essa il particolare soggetto è l’impresa. . L’obiettivo, sia chiaro, non è però quello di favorire l’impresa nel suo complesso, cioè a vantaggio anche dei lavoratori, bensì quello di massimizzare il profitto esclusivamente dell’imprenditore e degli eventuali suoi soci. Non esiste un limite a questo profitto, il quale può essere anche smodato. In questo contesto il mercato si regolerebbe da solo attraverso il meccanismo della competizione, mentre lo Stato detta alcune regole basilari, senza troppo comprometterne l’andamento. Il risultato: le persone sono consumatori, che, tramite gli acquisto di merci, favoriscono il maggior profitto delle imprese. Il costo del lavoro deve essere compresso il più possibile, essendo una componente non fissa del costo di produzione.
Pertanto l’imprenditore, in assenza di regole vincolanti, tende ad utilizzare meno unità lavorative, pagandole il meno possibile e che possano vantare pochi diritti (Jobs Act a tutele crescenti, cioè partendo da zero). Quando l’impresa non ne ha più bisogno, se ne disfa come una merce (utilizza i voucher), per poi riassumere i lavoratori alla bisogna. La condizione necessaria per ottenere il massimo profitto, quindi, è che si crei una forte competizione tra i lavoratori, cioè una tasso di disoccupazione elevato. In questo modo sono indotti a lavorare a qualsiasi prezzo e a qualsiasi condizione, pena l’esclusione e la gogna sociale, oltre che l’impossibilità di spendere per garantire un futuro migliore ai propri figli e a se stessi. Ma per fare in modo che questo 10 o 20% di popolazione lavorativa disoccupata possa comunque spendere, in questo caso lo Stato deve intervenire, magari attribuendogli un reddito minimo garantito (Reddito di Cittadinanza). Un ulteriore tassello per rendere ulteriormente efficiente il sistema, potrebbe fornirlo anche la disponibilità ad “accogliere” manodopera ancora più disperata di quella locale (italiana). Stranieri, che fuggono da guerre, fame (vera) e magari poco alfabetizzati, ma abituati a guadagnare pochi euro. Si pensi al vantaggio per le imprese di una tale situazione: per ridurre il costo della manodopera, l’impresa non ha più la necessità di delocalizzare in Paesi lontani, ma gli è sufficiente facilitare, con il supporto magari di politici compiacenti, l’arrivo in Italia di questi lavoratori disperati. E’ evidente che così facendo, l’imprenditore rischia molto meno il proprio capitale, non dovendo andare a realizzare un’impresa in Paesi scomodi, magari non troppo affidabili e con costi da fastidiose e poco controllabili tangenti. Ma ci sono altre condizioni utili alla massimizzazione anche smodata dei guadagni. Per esempio disporre di un’informazione di massa condizionata, o meglio, in gran parte controllata, in modo da far passare alla popolazione messaggi pro-imprese, come i seguenti: “la ripresa economica è arrivata” (significato: si può spendere di più); “le imprese statali sono inefficienti e il debito pubblico è insostenibile” (l’intento è di indurre lo Stato a svendere ai privati i servizi pubblici essenziali come l’acqua, la sanità, la scuola, i trasporti pubblici, ecc, il tutto a proprio favore); porre l’attenzione dei mass media su questioni completamente futili (gossip, calcio, ecc.) e, quando accade, o serve, amplificare eventuali presenti o futuri cataclismi (riscaldamento globale, robotizzazione del lavoro, globalizzazione, ISIS, Russia, Corea del Nord, ecc.). Hanno tutti lo scopo di distogliere l’opinione pubblica dai veri problemi, quali la mancanza di lavoro, inquinamento, scarso livello dei servizi.. Inoltre incutono paura, che notoriamente, non guasta mai e, non ultimo, fanno aumentare le vendite dei giornali cartacei o le consultazioni on-line (più clic uguale pubblicità). In questo modello di sviluppo economico dell’impresa, inoltre, non guasterebbe anche un basso livello di scolarizzazione e di cultura. Meno la gente sa e più è manovrabile ai fini delle imprese e dei loro soci. Infine un accenno all’ambiente ed all’agricoltura. E’ evidente che il primo viene considerato come un fattore sfruttabile a piacimento, non importa se si favorisce l’inquinamento, l’importante è fare utile e al massimo grado. Le produzioni agricole per la trasformazione e vendita invece vanno “mantenute” (PAC), ma pagate poco. Meglio se fosse possibile vendere la produzione come esplicitamente italiana (il marchio Italia tira), ma di pura facciata e senza particolari controlli da parte dello Stato. Va favorita la condizione in cui gli agricoltori sono divisi e in eterno conflitto tra di loro tramite i sindacati agricoli, poco formati dal punto di vista imprenditoriale e per nulla capaci di capire la logica del profitto dell’impresa. Quest’ultima infatti, è una categoria d’impresa diversa dalle altre!
Fausto Cavalli