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Latte italiano? Se lo dice l’etichetta…

Nel mondo del latte c’è grande soddisfazione: finalmente quello italiano è riconoscibile dall’etichetta! Il 19 aprile entra in vigore il nuovo decreto sull’etichettatura d’origine per i prodotti lattiero caseari Decreto 9 dicembre 2016. Sono tre gli elementi che troveremo sulle nuove etichette: origine del latte, Paese di trattamento, Paese di confezionamento. Una svolta epocale per il nostro latte, che traspare, infatti, dalle dichiarazioni trionfalistiche delle Organizzazioni sindacali agricole e da parte dello stesso Ministro delle Politiche agricole e forestali Maurizio Martina. Così la Coldiretti “​Storico via libera della Commissione europea alla richiesta italiana di indicazione di origine obbligatoria per il latte e i prodotti lattiero-caseario”; e ancora: “Raddoppia il prezzo del latte italiano dopo il via libera all’etichetta d’origine su latte e formaggi”. Aggiunge il Ministro: “Con oggi ufficializziamo che l’Italia porta in etichetta l’origine del latte e dei suoi derivati. E una tappa storica per il mondo dei produttori e degli allevatori ed è necessario per garantire sempre di più e sempre meglio i nostri allevatori in questo momento molto difficile per la crisi del latte che sta vivendo tutta l’Europa”. Finalmente quindi i consumatori potranno scegliere sugli scaffali dei supermercati i prodotti lattiero caseari in base alla provenienza italiana, mentre gli allevatori potranno godere dal punto di vista economico, della richiesta esclusiva del loro latte da parte dell’industria e della GDO. Ma è proprio così?

Ebbene, purtroppo non sarà esattamente così e per un motivo molto semplice: il decreto emanato in realtà dice una cosa leggermente diversa, che sa tanto di ipocrisia. A volte il dettaglio è importante, ecco la sorpresa. All’articolo 1, comma 3, si legge “Resta fermo il criterio di acquisizione dell’origine ai sensi della vigente normativa europea”. Cosa vuol dire questa frasetta apparentemente semplice? L’espressione “acquisizione dell’origine”, la chiarisce l’articolo 60 del Codice doganale dell’Unione europea al comma 2, che recita: “Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”. Ecco che allora il latte, sia pure di provenienza estera (UE), avendo però subito l’ultima trasformazione sostanziale nel nostro Paese, come latte pastorizzato, yogurt, o formaggio, diventa per magia italiano. Infatti, la frase Made in Italy indica solo il paese di trasformazione del prodotto latte, ma non la sua produzione all’origine. Considerando che il nostro paese importa circa il 35% di latte, per lo più tedesco e francese, capite che se trasportato in Italia e qui soggetto ad ultima trasformazione sostanziale, paradossalmente potrà fregiarsi del marchio “Made in Italy”. Pensiamo ad esempio a Parmalat/Galbani/Invernizzi acquistate dai francesi, secondo voi utilizzeranno principalmente latte italiano? Di fronte ad un’etichetta che riporta in bella mostra la dicitura Prodotto in Italia, quanti consumatori andrebbero a leggere le altre scritte, magari di carattere più piccolo e meno in evidenza? Intendiamoci, la normativa in questione prevede in etichetta la specifica circa l’origine del latte, che potrebbe essere ad esempio “Paesi Ue”, ma che letta assieme alla dichiarazione di produzione, genererebbe facilmente l’equivoco che essendo l’Italia un Paese europeo, si tratti di latte in tutto e per tutto di origine nazionale. Si aggiunga poi che le sanzioni previste per un’infrazione a queste norme non sono certo esemplari: solo di tipo amministrativo da euro 1600-9500! Ma allora gli entusiasmi e i proclami per un futuro migliore per i nostri allevatori, che confidavano in un prezzo del latte alla stalla più dignitoso?  In tutta questa vicenda ricca di ipocrisie, si può allora trovare applicato il senso della frase “ad usum delphini”. La locuzione indica l’edizione di un testo semplificata per adattarla alla limitata capacità di apprendimento, per età o per cultura, di una persona, oppure, in senso dispregiativo, denota la manipolazione di notizie, informazioni o documenti a vantaggio di un dato soggetto o per fini propagandistici. Sia chiaro che, nel caso, la parte del delfino, la fanno gli allevatori italiani.

 

Fausto Cavalli

Agronomo esperto di agricoltura, energie rinnovabili, economia e politica